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domenica 28 settembre 2014

La mia storia

Non ho vissuto un'infanzia spensierata e da ricordare con nostalgia:subire abusi sessuali da molto piccola e per parecchio tempo,per giunta da un famigliare stretto,mi ha fatta crescere molto troppo in fretta e mi ha sempre fatta sentire diversa. Terreno fertile per un disturbo alimentare,che non si è nutrito di semplice mancanza di autostima ma dall'odio per un corpo,il mio,che mi faceva sentire sporca.
Ero anche una bambina di salute molto cagionevole,che non voleva nutrirsi,e avevo addosso tutta la mia famiglia (che non sapeva cosa stessi vivendo) che mi spingeva continuamente a mangiare,per paura che non riuscissi a crescere. Pian piano mi rendevo conto quanto il cibo mi facesse star bene,non mi ammalavo più,e mangiare era diventato un qualcosa di positivo,di piacevole. Con quella nuova consapevolezza,il peso iniziava ad aumentare velocemente,e io diventavo sempre più paffutella.
I bambini si sa,sanno essere davvero cattivi,ed ero diventata lo zimbello della scuola,derisa da tutti e vittima di ogni scherzo possibile ed immaginabile. Mi si faceva sentire brutta,tanto che mi convincevo di esserlo veramente,e ciò che stavo vivendo mi spingeva ad essere trasandata e vestita senza alcuna cura,per paura che qualcuno mi guardasse. E che,soprattutto,mi toccasse di nuovo.
Gli anni passavano,io ingrassavo sempre di più,e mio padre iniziava a darmi soprannomi poco piacevoli come "Fagiolo" e "Maiale",prendendomi costantemente in giro per i miei rotoli di ciccia ed imponendomi di vestire con abiti-tenda,lunghissimi,per mascherare tutto quel grasso. Lui si vergognava di me,continuava a dirmi che avrei dovuto essere magra "per mettere le minigonne che mi coprissero a malapena il culo" e "per essere una persona normale". E io non lo ero,era evidente sia a me stessa che a chiunque mi circondasse.
Mangiavo di notte,di nascosto come una ladra e con una foga senza precedenti,anche roba cruda e fredda di frigorifero o addirittura di freezer (come ravioli o minestrone surgelato,fatto a pezzi alla bene e meglio). E mi sentivo bene,confortata da quello tsunami emotivo che si placava con quell'abitudine malsana,da quel masticare velocemente il cibo che scaricava tutta la tensione che avevo dentro. Poi mi sentivo una merda,ma non potevo farne a meno. Il cibo,ormai,era il mio amico più fedele,la mia valvola di sfogo segreta,una grande parte di me.
Questa routine era un appuntamento fisso,e io la tenevo viva incurante delle prediche di mio padre sul cibo sparito durante la notte, sprofondando sempre più nell'abisso delle abbuffate compulsive. Fino ai 21 anni,quando,portata allo stremo da troppe responsabilità che mi erano piombate addosso (prima l'assistere mio padre bloccato per 9 mesi dopo un incidente e con lo stress alle stelle,poi per la depressione grave di mia madre che tentava di strozzarsi da sola giorno e notte),scoprivo l'altro mio Male:il vomito autoindotto.
Potevo mangiare ciò che volevo,tanto poi l'avrei rigettato fino all'ultima briciola,e con il tempo scoprivo metodi sempre più bizzarri per rigurgitare tutto,a costo di avere la lingua che non sentisse più alcun sapore,imparavo a vomitare senza emettere alcun suono. La mia famiglia continuava la sua vita senza grandissimi scossoni,e ogni giorno io mi massacravo nel bagno con le dita in gola,anche 3 volte nella stessa giornata. Nessuno se ne accorgeva,e io scivolavo sempre più nel baratro. Nel frattempo,ero anche diventata schiava dei lassativi,dai quali c'era sempre più dipendenza e assuefazione,con la dose in costante aumento. E nessuno sapeva.
Solo 2 anni dopo avevo avuto il coraggio di dirlo a mio padre,forse con un briciolo di lucidità che mi desse la forza di chiedere aiuto. La sua risposta era stata "Ho già tua madre da accudire,non ho tempo per due persone",e in quel momento avrei voluto non esistere,non essere più un problema. Più volte,in preda alla disperazione,avevo ingurgitato quantità massicce di tranquillanti e ansiolitici,e ricevevo solo urli e schiaffi in cambio. Nessuna carezza,nessuna mano che si tendesse verso di me. Con il senno di poi credo che non volessi davvero morire,che,piuttosto,volessi essere stretta fra le braccia dei miei genitori e che qualcuno mi dicesse "Hey,Petra,andrà tutto bene,ci sono io con te!". E invece il vuoto.
Mi ero ridotta ormai ad ammazzarmi di abbuffate stratosferiche ed estenuanti "sessioni" di vomito,fino a quando un ragazzo,conosciuto in internet per caso e con il quale avevo poi iniziato una relazione,mi aveva convinta ad andare da una psicologa della sua città (Parma,a 130 km dal mio paesino in provincia di Bergamo),rispondendo alla mia richiesta di aiuto non appena avevo realizzato di avere un problema. Lei era stata la prima di svariati psicoterapeuti,senza contare dietisti e psichiatri,e una delle tantissime spese che quella malattia mi aveva comportato fino alla cosiddetta "guarigione". Il conto salato della bulimia nervosa.
Solo a 28 anni avevo avuto la fortuna di incontrare la "mia" psicologa,una persona dolcissima che mi era stata consigliata dall'ennesima dietista,e che mi sapeva prendere per mano e guidare verso nuova consapevolezza. E una nuova speranza,che ormai non pensavo più di poter conoscere.
La frase "Mi sa che ci vedremo ancora per poco,tu sei guarita" arrivava come regalo per i miei 30 anni,senza che nemmeno mi ricordassi di essere mai stata ventenne. Perché i miei vent'anni erano stati come un tunnel lungo e nero come la pece,come se mi fossi addormentata ventunenne e mi fossi risvegliata già trentenne. Anni che nessuno mi potrà restituire,e che io rimpiango ogni giorno della mia vita.
Nel frattempo avevo terminato un rapporto di più di 6 anni (di cui 2 di convivenza) con quel ragazzo di internet che si era stancato velocemente della mia malattia,sconfitto una displasia lieve al collo dell'utero,perso 2 posti di lavoro dopo vari soprusi psicologici (a parte una piccolissima parentesi tranquilla in un posto a chiamata) e perse svariate amicizie con gente che mi giudicava "malata di comodo e asociale di merda",preso oltre 30 kg di peso e conosciuto la persona meravigliosa che da 2 anni è mio marito.
Questi ultimi 4 anni non sono stati rose e fiori,ormai ho perso il conto delle tante scivolate e delle 2 ricadute pesanti nella malattia,l'esperienza della depressione e i pensieri che una persona "normale" non dovrebbe mai fare nella vita...eppure sono ancora qui.
Ho deciso di dedicare la mia vita al volontariato,mettendo tutto l'amore del quale sono capace in cause come i diritti degli animali e la sensibilizzazione riguardo i disturbi alimentari. Si,proprio quel demone che mi ha letteralmente mangiato 9 anni e passa di vita. Non è stata una decisione a cuor leggero,queste non lo sono mai,ma penso che la vittoria più bella sulla malattia sia non solo la totale guarigione fisica (per la quale combatto fino a non avere più forze),è il rendere quella malattia risorsa a disposizione di altri. Il mostrare che da quel tunnel si può uscire,e ancora più forti,ed informare il più possibile per evitare che altre persone cadano in quella trappola insidiosa.
La speranza esiste,è solo che non dobbiamo mai smettere di cercarla. Adesso,a 34 anni e mezzo,io ne sono consapevole.
PETRA

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