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domenica 16 luglio 2017

Per amore della danza ho sconfitto l'anoressia.


32 chili: esulto sulla bilancia. Il mio corpo sta diventando così leggero che mi sembra di poter volare.  Via, lontano dalla mia paura di vivere. Ma un macigno di tristezza mi fa da zavorra: arranco penosamente per le scale, sono a corto di fiato, senza forze. E a ogni passo mi sento sconfitta, mentre sprofondo nelle sabbie mobili dell’anoressia nervosa.

Non trovo il mio posto nel mondo
Sono figlia unica e fin dall’infanzia, poiché entrambi i miei genitori lavorano, trascorro la maggior parte del tempo dai nonni, con libri, borse e abiti sparsi tra due case. Questa situazione un po’ zingara inizia a farmi soffrire durante le scuole medie, quando avverto il bisogno di un angolo tutto per me. Solamente con la danza classica, che pratico dall’età di cinque anni, sento di avere un posto nel mondo.  A scuola sembro trasparente: la timidezza ostacola le amicizie. Con l’inizio dell’estate dei miei 15 anni, la solitudine e la noia sono diventate una droga che mi toglie la ragione. Un giorno, sfogliando un giornale, leggo un articolo su come ritrovare la linea. Non sono in sovrappeso, ma inizio a studiare le tabelle nutrizionali dei prodotti, giusto per passare il tempo: nel giro di poco, divento una guru della composizione degli alimenti. Mele, spaghetti, carne, verdure: imparo le percentuali di carboidrati, proteine, fibre e grassi. Finché un mattino, allo specchio, un pensiero mi solletica l’orgoglio: «Con qualche chilo in meno, forse starei meglio». Rinunciare a brodi e petto di pollo lessato, menù fisso dai nonni, non è faticoso. E mentre il mio peso inizia a calare, lo stomaco si restringe. «Posso scendere ancora»: sfido me stessa in modo insulso, senza rendermi conto del vortice in cui mi sto infilando. Calcolare esattamente quante calorie inghiotto mi regala una sensazione di onnipotenza; non mi rendo conto che mi sto inabissando rapidamente come il Titanic.

Vivo in gara con me stessa
«Mangia un po’ di più»: mia madre una sera mi fissa preoccupata. «Eli, sei dimagrita, stai bene?», mi chiede nei giorni seguenti una delle mie poche amiche. Non capisco perché si preoccupino: i miei fianchi mi sembrano così larghi rispetto al mio busto esile. Ma di lì a poco non c’è più un abito in cui non sprofondi: ho perso 15 chili in tre mesi. Finché un giorno sulla bilancia compare il numero 32: sorrido vittoriosa. Allo specchio, però, scorgo solo il ghigno di un fantasma che mi fa sobbalzare il cuore. Avverto l’istinto di gridare, ma i miei genitori sono più veloci della mia voce e mi portano di peso in ospedale. «Il sondino nasogastrico mai», minaccio la dietologa. E l’incontro con la psicologa non va meglio: patteggio tre pomeriggi a settimana tra visite mediche e percorso psicoterapeutico, pur di evitare il ricovero.

Mi sento morire dentro
«Scordati di ballare in queste condizioni», sentenzia un altro medico, gettandomi nella disperazione. Le ore in cui avrei dovuto volteggiare sulle punte le trascorro disegnando. Tra i miei arabeschi svuoto la mente: l’anoressia mi sta privando di ciò che più amo. La rabbia mi assale e si mescola all’ansia.  La sera prego il cielo che mi faccia risvegliare il mattino dopo: ho il terrore che il mio cuore, messo a dura prova, ceda nel sonno. L’anoressia ha corroso la mia voglia di vivere. Tutto d’un tratto, nel mio corpo scheletrico intravedo un futuro di profonda tristezza, da cui potrei salvarmi solo con un lungo lavoro interiore. Non so da dove partire, non trovo conforto nella terapia psicologica. Di una cosa però sono certa: non voglio essere ricordata come una debole o compatita. Non ho scelta: o aspetto di sbriciolarmi, o ricomincio a mangiare.

L’amore per la danza mi ridesta
Ogni boccone è un pugno nello stomaco, ma la cosa più complicata è non cedere ai calcoli delle calorie: cerco di concentrarmi su altri numeri, e conto i giorni che mi separano dal saggio di danza di fine anno. Non voglio mancare. È maggio, ormai, quando recupero il peso minimo per riprendere le lezioni: appena calzo le scarpette, dovrei sentirmi radiosa, eppure avverto un’inquietudine. Ho sempre preteso da me stessa esecuzioni degne di un étoile, ma ora capisco che questo atteggiamento mi ha distolto dal puro piacere di danzare. Provo a lasciarmi andare sulle note di Tchaikovsky, ascoltando solo la mia struggente voglia di ballare: non conto i passi della coreografia e il mio cuore inizia a volare. Ora sì, assaporo la felicità. I miei movimenti sono imperfetti, ma non importa, perché ce l’ho fatta: sono riuscita a salire sul palco del teatro.  E soprattutto sono tornata sul palcoscenico della mia vita.

Di nuovo al centro della mia esistenza
«Brava Elisa, stai andando bene». La nutrizionista da cui vado durante l’estate è un faro nel mio tortuoso percorso di risalita dal buio. Mi hanno permesso di interrompere le visite ospedaliere purché io sia seguita da una specialista e lei mi piace perché non mi identifica con i miei chili. Divide lo studio medico con il marito  e nella fiducia che anche lui ripone in me di riflesso si fortifica la mia autostima. «Ti possiamo aiutare, ma solo tu puoi cambiare la situazione. Sei tu il soggetto della tua vita», mi sprona un giorno. Come un’illuminazione, di colpo mi rendo conto di aver vissuto ai margini della mia esistenza, con un atteggiamento passivo che mi ha condotto alla deriva. Ora però sono determinata, voglio sconfiggere l’anoressia, mi è chiaro che sono io l’artefice del mio destino. «Combatti Elisa, reagisci», mi ripeto varcando l’uscio. Corro dai miei nonni e prendo tutte le mie cose: quando rientro a casa, mi ritaglio uno spazio tutto mio. Ed è solo l’inizio.

Alla fine ho vinto la mia guerra
Sono passati cinque anni. Il bilancio? Essere “leggera” è stato molto pesante. Con l’anoressia ho intrattenuto un estenuante combattimento: lei ha avuto la meglio in alcune battaglie, ma la guerra l’ho vinta io. La mia famiglia,  le mie vere amiche, i miei medici, tutti sono stati preziose tessere della mia rinascita, ma senza la mia volontà sarebbe stato impossibile ricomporre  il puzzle della mia identità divorata dalla malattia. Oggi sto incominciando ad amarmi e ad accettare ciò che non posso cambiare.  «Prendete la vita con leggerezza», scrive Italo Calvino in Lezioni americane, «che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore». La sue parole mi danno una direzione. Sto imparando a lottare per ciò che desidero, perché non sia la paura del futuro a pilotarmi: voglio essere io al timone della mia vita, avanti  tutta verso la mia felicità.

Elisa

Elisa Sossi, 20 anni, vive a Trieste con i genitori e frequenta la facoltà di Lettere moderne. Studia danza classica da quando aveva 5 anni. Nel libro Il peso della leggerezza (Aletti editore) Elisa Sossi ripercorre la sua vicenda di malattia e guarigione. L’autrice ha partecipato al premio Quasimodo, indetto dalla sua casa editrice, ed è arrivata terza.

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