mercoledì 25 ottobre 2017

La storia di Serena - parte 1



Quando si parla di disturbi alimentari la gente comune che non l'ha vissuta personalmente o come famigliare della "vittima" ma ne ha solo sentito parlare da un TG mentre era a tavola con la propria famiglia, o leggendo un articolo su un quotidiano in pausa pranzo, pensa subito ad una malattia del corpo. Un corpo che, quasi inspiegabilmente, diventa troppo magro, o troppo grasso. Immagina l'anoressia attraverso un vestito taglia 36 di una modella che cammina con una forza inspiegabile su una passerella, o una tuta taglia XXL introvabile, addosso a qualcuno che tenta di entrarci dentro cercando di nascondere la sua massa e di farsi scivolare addosso atti di bullismo e umiliazioni direttamente proporzionali al proprio surplus corporeo.
In realtà i disturbi alimentari sono qualcosa di molto più complesso e non solo riconducibili semplicemente ad un numero della bilancia sempre troppo borderline - anche se ovviamente, anche questo è un fattore che necessita di essere preso in considerazione quando poi si comincia un percorso di guarigione, liberazione, di... ritorno alla vita.
Io che ne ho sofferto per tanti anni e in più sfumature posso raccontarvi la mia storia, perché è necessario avere più consapevolezza in questo mare magnum di informazioni che rimbalzano da una parte all'altra del web e del mondo reale, perché sono le testimonianze di chi l'ha vissuto sulla propria pelle a fare maggior chiarezza e perché no, dare una mano a chi ci è dentro a piè pari e ancora non riesce a comprenderlo o ad ammetterne il disturbo.
Non ricordo esattamente quand'ho iniziato a soffrire di anoressia, non c'è un "giorno x" che ho segnato sul calendario e da cui ho iniziato a spuntare giorno dopo giorno le settimane , i mesi, gli anni. Però posso dirvi che ho iniziato a non accettarmi più attorno ai 12, 13 anni, parliamo di fine anni '90, poiché ora sono adulta e di anni ne ho 33. Non accettavo il mio corpo che diventava maturo, non accettavo i cambiamenti ormonali, un seno prosperoso oggetto di attenzione e scherno da parte dei compagni di scuola, non accettavo più il mio viso abitato da una forte acne giovanile, non accettavo che assieme a tutto questo cambiamento, la mia mente iniziava a prendere consapevolezze di insicurezza (sembra un paradosso, lo so), di timori mai avuti prima, fiducia in me stessa sempre più precaria, nel mio essere troppo sensibile, con cui a volte ci avrei fatto a botte per sentirmi un po' più anestetizzata e un po' meno suscettibile. 
Era evidente che mi sentivo a disagio. Non mi ritrovavo più in quell'involucro, non mi trovavo più in famiglia, dove il dialogo iniziava a trasformarsi in una battaglia continua per qualsiasi cosa. Iniziai a soffrire di gastrite, gastrite vera, già a 12 anni, di quelle che ti obbligano a seguire una dieta, dal non bere the, coca cola, non mangiare cioccolata, cibi fritti. Tutto ciò di cui un adolescente invece si nutre in quegli anni spensierati. 
E in questa dieta imposta dal dottore iniziai a sentirmi più sicura, protetta. A scuola avevo la giustificazione scritta per la dieta "in bianco", i miei piatti erano sempre candidi e puliti, mi rassicuravano come rassicurerebbe il latte materno ad un neonato, ero una mosca bianca, qualcosa di fragile che veniva visto sempre di più come "diverso" e in questa diversità silenziosa io mi ci avvolgevo come si fa in inverno con le copertine in pile. A casa c'era il piatto cucinato ad hoc solo per me. E questo mi dava sempre di più sicurezza e protezione da un mondo che non mi piaceva e di cui non sentivo di far parte. Passato il periodo di dieta e passata la gastrite però mi sentii come abbandonata e da allora ricordo che iniziai di mia volontà a scegliere lo stesso di non nutrirmi più di certi alimenti, per paura di star male; una sorta di "campagna preventiva", e da lì mi accorsi che in questo modo le persone mi guardavano, i compagni di classe, i professori, i miei genitori, e tutti rispettavano questa mia scelta senza farsi troppe domande. 
Col tempo la scelta degli alimenti non bastò più, iniziai a mangiare meno, sempre meno giustificandomi con il fatto di sentirmi già sazia dopo un boccone e di temere di star male e vomitare. Dicevo di non riuscire più a digerire niente, sembrava che tutto fosse un macigno nel mio stomaco tanto che iniziai anche a farmi comprare omogeneizzati e a nutrirmi sopratutto di quelli. Mi sentivo come una bambina in fase di svezzamento, appunto, ogni cucchiaiata presa dal vasetto la vivevo con lentezza e misticità, convinta che quello sarebbe stato il giusto compromesso tra nutrirmi, non sentirmi sazia, e mantenermi "diversa". Fu in quel periodo che avvertii anche il cambiamento del mio corpo, quando i vestiti iniziarono a non starmi più, quando le mie compagne di classe mi guardavano quasi con occhi pietosi, quando i miei genitori provavano ad alternare gli omogeneizzati con un piatto di pasta e poi, in silenzio, mi toglievano da tavola il piatto mangiato solo per un quarto. Dimagrivo e mi sentivo più forte, era un modo per gridare la mia sofferenza, perché a voce non sono mai riuscita a farmi ascoltare, forse nessuno era propenso ad ascoltare, forse io per prima non trovavo il coraggio a voce . A quell'età non si hanno abbastanza capacità rielaborative per esprimere a parole mille disagi esistenziali. Per questo i miei genitori mi mandarono da una prima psicologa, perché lei facesse da tramite, da traduttore dei miei pensieri, riportandoli poi ai miei che sempre più preoccupati si chiedevano che disagio avessi addosso. Ci andai per un paio d'anni, riuscii anche a farmi cambiare di sezione per vedere se riuscivo a socializzare con nuovi compagni di classe magari più "positivi". Nonostante questo cambiamento il mio disagio continuò a trascinarsi, anche se con più leggerezza, a fasi alterne, a volte c'era, a volte lo mandavo in ferie qualche giorno nutrendomi di attimi di pura gioia adolescenziale. Sembrava gestibile. Eppure dentro sentivo che non ero del tutto in pace
Terminate le scuole medie, fu un ennesimo cambiamento a prendere il sopravvento. Scuola nuova, persone nuove, confronti nuovi, ritmi diversi. Non mi trovavo più, mi ero persa in una scuola che non ero sicura di voler fare, io volevo fare la musicista giacché suonavo il pianoforte già da 8 anni ed ero pronta per il conservatorio, i miei invece mi avrebbero voluto veder diventare psicologa, e per questa ragione intrapresi una scuola ad indirizzo umanistico, conscia anche del fatto che ero una studentessa modello, non mi mancava la buona scrittura, un buon metodo di studio, una bella dialettica. Ma non era quello che volevo. Non in quel momento. E mi trascinavo in conflitto con me stessa sui banchi, tra compagni di classe praticamente tutti sconosciuti, che condividevano con me poco e nulla, con materie che tutto sommato mi piaceva anche studiare, ma che avrei voluto scegliere io, di mia iniziativa. Davo il massimo, ottenevo il massimo. Ero l'alunna perfetta, come sempre. Ma non ero felice. 
E così iniziai a soffrire di attacchi di panico quando provavo ad uscire la sera con i miei nuovi compagni di classe, trovandosi per una birra clandestina e una sigaretta scroccata, lì mi assaliva il panico, mi mancava l'aria, non volevo sentirmi uguale alla massa eppure avevo questa estrema necessità di sentirmi parte di un gruppo, parte del mondo, essere accettata, approvata. Ma non ci riuscivo. Iniziò lì la mia vera corsa al declino, conoscevo già le tecniche, il livello base l'avevo già affrontato alle scuole medie, ora ero più grande, pronta per il corso Senior. Iniziai a non mangiare, a non bere, se proprio vedevo che a casa buttava male e tirava aria di tensione per i miei piatti lasciati così come mi erano stati offerti, mi sforzavo di mangiare e poco dopo dai sensi di colpa correvo in bagno a vomitare. Fu così che conobbi anche una delle altre sfumature dei disturbi alimentari, quella della bulimia. E quindi, per non dare troppo nell'occhio, questo nuovo comportamento alimentare divenne quasi una sfida con me stessa: riuscire a non destare sospetti, vivere la mia autodistruzione senza che nessuno se ne accorgesse. In fondo, a tutti interessava solo vedere il piatto vuoto. Per tutti era quella la voce della verità, la consolazione, la sicurezza di uno status di salute. Volevano vedermi mangiare? Perfetto. Eccovi serviti. Mangiavo. 
E poi andavo a vomitare tutto. In silenzio e lontano. 
Ormai non ero più Serena. Ero un piatto da terminare. La felicità di tutti derivava da quello. Se Serena mangiava, tutti erano felici. Ma nessuno si chiedeva come mi sentissi a fine pasto, e nessuno si chiedeva come mai- nonostante mangiassi- il mio corpo dimagriva, la bilancia segnava numeri impazziti.
Sì, la bilancia, perché iniziai a conoscere anche quel marchingegno infernale, iniziai a scoprire di averne ben 3 in casa e ognuna pesava a modo suo, con 2 o 3 etti di differenza. Ed io iniziai a sfidarle. Mi pesavo prima su una, poi sull'altra, e ridevo perché c'era la bilancia che non perdonava e mi mostrava 44 kg, quella più altruista me ne mostrava 43,7. 
Dove volevo arrivare...
Iniziai a darmi dei traguardi: 
arriviamo a 42, vediamo se ce la faccio.
Poi a 41.
E in tutto questo calare io mangiavo e nessuno si faceva delle domande, o forse non avevano il coraggio di farsele e farmele. 
E nel mio dimagrire trovavo la forza, nel mio dimagrire e nel mio fumare, perché dicevano che fumare faceva passare la fame, faceva bruciare calorie. Io in realtà bruciavo già di mio dentro, per i dolori di stomaco, le vertigini che avevo dopo ogni vomitata. Ogni tanto mi concedevo una tregua e preferivo saltare un pasto, quello mi faceva sentire meno sporca, più pura. E fu così fino ai 16 anni, alternando digiuni, rifiuti, mangiate obbligate e poi messe in punizione. Mi punivo e non ero lucida, la notte dormivo poco, di giorno ero assente, passavo le ore a toccarmi le anche che sporgevano, a guardarmi le clavicole, a piegarmi davanti allo specchio per vedere quanto le costole fossero evidenti, e se dopo aver mangiato la pancia mi si gonfiava mi tiravo dei pugni sull'addome dalla rabbia, con la speranza che rientrasse, piangevo in silenzio in camera mia, chiusa a chiave, perché nessuno potesse mai vedermi nuda. 
Poi arrivò un giorno, un giorno qualunque davvero in cui in un momento di spensieratezza in vacanza, presi in parte mio padre dicendogli che dovevo parlargli. 
Lui già sapeva cos'avevo da dire ma mi lasciò parlare. 
Gli dissi che ero malata, che soffrivo di non so bene cosa, a volte bulimia a volte anoressia, che volevo essere curata perché non ne potevo più.
Fu l'atto più coraggioso che feci nella mia vita, fu una liberazione per me ma anche una condanna perché dopo aver fatto outing ebbi gli occhi puntati addosso in modo quasi vendicativo. Mio papà mi promise un aiuto, andammo da uno psichiatra di un centro per disturbi alimentari di Milano che mi mise in lista d'attesa per il ricovero, nel frattempo iniziai una terapia farmacologica che mi spense un po' il cervello e con sé tanti cattivi pensieri. Ma in casa ormai non avevo scampo. Se mangiavo i miei mi proibivano di andare in bagno a vomitare, quindi decidevo di digiunare scatenando le ire di mia madre. Il mio sistema famigliare era ormai andato a pezzi. Mia sorella maggiore non capendo la mia sofferenza la vedeva come un capriccio, mio fratello più piccolo di me di 6 anni, ascoltando il parlare a ruota libera di mia madre nei momenti di disperazione, temeva che stessi per morire, come spesso lei mi diceva per mettermi paura.
Arrivò anche un momento in cui desiderai davvero di sparire perché il ricovero non arrivava ed io a casa ormai ero come un ospite sgradito, una mosca da mandar fuori dalla finestra. Finalmente mi chiamarono per il ricovero ma non fu come speravo. Era più che altro fatto di flebo, farmaci, incontri con psichiatra in cui si parlava del mio peso, come mi sentivo dopo aver mangiato e se me la sentivo il giorno seguente di aggiungere 5 grammi in più alla mia porzione di pasta. Ero in un gruppo di circa altre 10 ragazze, tra cui c'era solo gran competizione, e tra di noi c'erano gare ma anche scambi di "ricette" per ingannare le bilance dell'ospedale, per trovare la strada più veloce per dimagrire dopo una flebo di glucosio. Assieme facevamo delle terapie di gruppo, con conversazioni quasi scientifiche, pragmatiche, incontri con una nutrizionista che cercava di farci capire che una merendina non ci avrebbe fatto ingrassare tutto d'un colpo. 
Ed io che non sapevo se ridere o piangere, davvero, perché non era quello che cercavo, io cercavo ascolto, non indicazioni nutrizionali, io conoscevo già a memoria le tabelle nutrizionali di qualsiasi tipo di alimento, qualsiasi tipo di biscotto, di taglio di carne, di pesce, di bevanda. che bisogno c'era di fare educazione alimentare. Soffrire di disturbi alimentari significa soffrire nell'anima. Il corpo è solo un tramite per esporre il proprio soffrire invisibile, che non trova parole né espressione propria

Serena Gambuto

--- continua ---

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